Storia di un souvenir: superare la paura di volare. Caso clinico

Quando G si è presentato nel nostro studio portava una richiesta specifica: riuscire a prendere un volo per andare in vacanza con gli amici, volo a cui aveva sempre rinunciato per la sua paura di volare.

La sua richiesta però, portava una piccola complicazione: il volo sarebbe stato da lì a poche settimane.

Come da prassi in questi casi, nella prima seduta si è cercato di dare una definizione più accurata possibile del problema, analizzando quelle che sono le tentate soluzioni disfunzionali che G portava.

Molto spesso chi presenta un problema di questo tipo, per cui la paura di volare presenta delle tentate soluzioni tipiche: Evitamento, ricorso a varie precauzioni, richiesta d’aiuto, socializzazione del proprio problema, G le aveva chiaramente tutte, ma inoltre presentava una tentata soluzione un po’ particolare che non era propriamente sua, ma era di tutti i suoi amici.

G è un ragazzo poco più che trentenne, lavoratore è molto legato al suo gruppo di amici d’infanzia, con loro ha sempre socializzato il suo problema, tanto che sono gli stessi amici a cercare di aiutarlo nel superare questa sua paura di volare, accettando anche le rinunce all’ultimo minuto, non in senso metaforico, che G portava quando non riusciva a prendere l’aereo.dopo l’ennesima rinuncia comunicata nel cuore della notte, a poche ore dal volo, gli amici lo hanno costretto a portare il suo problema in terapia.

Il secondo passo in prima seduta è stato quello della definizione di un obiettivo attraverso la co-costruzione della domanda, per cui è stato chiesto a G: “cosa deve succedere nella tua vita per potermi dire grazie, non ho più bisogno di te“.

Per poter riuscire a creare subito una buona compliance terapeutica, si è scelto di utilizzare una comunicazione improntata sulla seconda persona singolare, facendo un buon uso di alcuni aneddoti personali per creare relazione, in modo da assicurarsi l’adesione alle prescrizioni successive. In ottica della terapia strategica la comunicazione definisce la relazione, pertanto il canale principale per poter creare una relazione terapeutica è quello della comunicazione utilizzato ad hoc, tra linguaggi analogici, metafore, l’uso di domande discriminanti, l’utilizzo di parafrasi ristrutturanti, tipici elementi del dialogo strategico(Nardone Salvini 2013).

G: “ vorrei riuscire a prendere l’aereo senza stare male, senza provare tutte quelle sensazioni di panico e di ansia che ho sempre provato”

Questa è stata la risposta di G alla nostra domanda, a questo punto si è indagato tutte le tentate soluzioni disfunzionali e, attraverso il dialogo strategico, si è creato avversione verso gli evitamenti, richieste d’aiuto e le sue precauzioni e socializzazioni.

T: “ di qui alla prossima volta ti chiedo di evitare di evitare, perché ogni volta che eviti rendi il tuo problema più grosso, tanto da dover evitare sempre di più. Ti chiedo anche una vera e propria congiura del silenzio, parlare del tuo problema lo fa ingrassare, tu ne parli più la bestia feroce del tuo problema diventa grosso. Ti chiedo anche di interrompere tutte le tue richieste d’aiuto, perché ogni volta che chiede aiuto ottieni due messaggi il primo messaggio è una manifestazione d’affetto nei tuoi confronti, ma il secondo messaggio, più subdolo e potente , ti Conferma che da solo sei incapace di farcela.”

Dato che G presentava come tentata soluzione anche il ricorso a diverse precauzioni: l’utilizzo della musica, film, eventuali psicofarmaci prescritti dal medico di base, erano anche queste da interrompere.

A conclusione della prima seduta, come da protocollo, abbiamo proceduto nel prescrivere il compito della peggiore fantasia: “da qui a quando ci vediamo la prossima volta li vorrei che tu tutti i giorni, dopo pranzo, mettendoti in un luogo dove non puoi essere disturbato, creando la penombra, puntando una sveglia che suona mezz’ora più tardi, vai a immaginare tutte le tue peggiori fantasie, fino a provocarti quelle sensazioni che normalmente temi, voglio che immagini di essere sull’aeroplano che inizia traballare e non riesce ad avere controllo, che tutto intorno a te si scateni il panico… Quando mezz’ora più tardi la sveglia suona, stop!, ti sciacqui il viso e torni a fare la tua giornata.“

Ci salutiamo ci diamo un appuntamento per la seduta successiva a distanza di due settimane, calcolando esattamente i tempi che ci servivano fino al giorno del decollo.

Quando ci torna nella seconda seduta si dice dispiaciuto per non aver eseguito i compiti nel modo corretto, riporta, infatti, che, a parte i primi due giorni, ogni qualvolta ha svolto il compito non riusciva a concentrarsi in alcune occasioni si era pure addormentato.

Questo è un tipico effetto del compito della peggiore fantasia, questo effetto è chiamato tecnicamente “effetto paradosso“, dove nel tentativo di evocare le peggiori sensazioni e fantasie, cercando volontariamente di stare male, si ottiene un effetto calmante, un secondo effetto terapeutico è quello di non avere più momenti di panico durante la giornata.

Attraverso una ristrutturazione cognitiva, spiego a G che gli effetti ottenuti erano quelli voluti, non che preventivati. In questo modo G ha un’arma da poter utilizzare nel momento del bisogno.

Come spesso viene in questi casi, si mette nel letto e paziente su possibili ricadute, pertanto la terapia procede da protocollo introducendo la seconda fase, quella di sblocco, dove si deve guidare il paziente ad un vero e proprio training all’utilizzo di quest’arma: l’effetto paradosso. La mezz’ora di peggiore fantasia viene evoluta in cinque momenti quotidiani distanziati di tre ore della durata di cinque minuti l’uno. Verrà poi evoluto ulteriormente in un utilizzo al bisogno dell’effetto paradossale

Al termine della seconda seduta concordiamo con G di vederci a distanza di una settimana, ma a ridosso del suo volo, chiedendo di poter andare il più possibile negli aeroporti, fino ai check-in, Osservando il più possibile le persone presenti.

La terza seduta avviene pochi giorni prima del suo volo, G esordisce in seduta dicendosi molto più calmo di quanto lui era stato in passato, ammettendo che in occasioni passate a quell’ora sarebbe già stato molto agitato, già sul punto di arrendersi.

In questa seduta si è fatto una ricapitolazione del lavoro svolto finora, dando ultime indicazioni più specifiche per la fase di volo, principalmente decollo e atterraggio. Indicazione data è stata quella di osservare il più possibile le persone al check-in e al Gate di imbarco, cercando di individuare tutti quei segnali di ansia che poteva vedere nelle altre persone, questa manovra serve a distogliere l’attenzione da quello che succede dentro di noi per poter poi trovare negli altri una calma apparente, al punto da tranquillizzarsi maggiormente. È stata anche dato un’indicazione un po’ particolare , tipica dei casi di paura di altezze o di paura di volare: si chiede al paziente di incrociare le mani sovrapponendo i pollici in modo invertito a come lo farebbero naturalmente, a questo punto si chiede di premere un pollice sull’altro tanto quanto sente la propria ansia aumentare.

Prima dell’ultima seduta G ci manda una foto su WhatsApp del suo arrivo in aeroporto esclamando che era andata meglio del previsto.

A distanza di qualche settimana lo rivediamo in studio, con un sorriso enorme stampato sul volto è un piccolo souvenir calamitato del posto dove è stato. racconta che all’andata ha fatto tutti i Compiti che aveva imparato durante il percorso psicoterapeutico, compresa la peggiore fantasia la sera prima di partire e anche in aeroporto. Ha utilizzato anche la tecnica dei pollici sovrapposti, ma solo per pochi minuti poi tutto è andato liscio in modo molto naturale. Racconta che all’atterraggio Tutti i suoi amici e hanno chiesto com’era andata, tra lo stupito e il preoccupato, ma che lui ha risposto che ne avrebbero parlato a ritorno a casa, dato che c’era comunque un altro aereo da prendere. Racconta che al ritorno non sono neanche serviti gli esercizi tanto era tranquillo, e che i suoi amici si sono addirittura dimenticati di chiedergli com’era andata, anche lui si era totalmente scordato che avrebbero potuto festeggiare il suo volo Dopo tanti anni. Concordiamo sul fatto che essere tornati dimenticandosi di aver fatto un’impresa eccezionale è un segno di un enorme miglioramento e cambiamento. Racconta che sta già pianificando il prossimo volo e concordiamo sul fatto che non ho più bisogno di noi, ma l’obiettivo terapeutico definito in prima seduta era stato raggiunto.

Ci concediamo complimentandoci con il lavoro che ho svolto, ricordando che la porta del nostro studio Sarà sempre aperta per lui qualora lo vorrà.

Il lavoro terapeutico è stato svolto in pochi incontri anche grazie alle necessità contingenti i un volo nel breve periodo, ma in casi come questi, con problematiche di carattere fobico, lo sblocco del problema può avvenire già tra la prima e la seconda seduta, come nel caso qui presentato, per poi continuare il lavoro di consolidamento di nuovi meccanismi appresi e conoscenza di sé.

Paura di parlare in pubblico

paura di parlare in pubblico

Superare la paura

Quando si pensa al parlare in pubblico si va subito a pensare a palchi, grossi pubblici e riflettori puntati. Una situazione che potrebbe creare problemi a molti.
In realtà i problemi possono arrivare anche quando la situazione è ben diversa, come un ufficio, qualche collega e una presentazione power point, magari con il bilancio da presentare.

Chi si trova in questa situazione inizia a pensare che non ne verrà fuori bene, che la voce gli si strozzerà in gola.
Si sforzerà per fare tutto al meglio, per non sbagliare una virgola, ma appena i suoi occhi cadranno su quello di qualcun altro e noterà quell’impercettibile nota di disappunto, sarà il problema diventerà enorme. Ci sarà il blocco!

Come nel fu Mattia Pascal “si immagini signor Meis, se dal buco nel cielo di carta del teatrino delle marionette, entrassero tutti gli influssi del mondo, proprio quando che L’Oreste sta per vendicare la morte del padre […], diventerebbe un Amleto” (riportata a memoria, mi scuso per le imperfezioni)

L’eroe si blocca e diventa pieno di dubbi, che lo porteranno ad evitare sempre più quella situazione.

Con un breve percorso, però, ci si può sbloccare in tempi brevi e tornare ad essere un vero oratore.

Siamo quindi di fronte ad un vero e proprio blocco della performance, dove tutto quello che viene cercato di fare per sbloccarsi va, paradossalmente (come per ogni problema che si rispetti) a diventare la strategia disfunzionale che complica il problema, invece che risolverlo.

Le strategie disfunzionali

Nella terapia breve strategica si parla di Tentate Soluzioni.

Vediamo ora insieme quali possono essere davanti al blocco della performance del parlare in pubblico.

  • evitare
  • inventare scuse
  • trovare il modo di delegare
  • chiudersi in bagno
  • fingere un malore
  • chiedere aiuto
  • chiedere rassicurazioni
  • auto sabotarsi

Ad esempio, un paziente mi raccontava di come era riuscito a trovare l’escamotage di auto chiamarsi al cellulare, in modo da uscire dalla stanza e fuggire lontano dalla graticola.

In che modo una tentata soluzione diventa parte del problema?

Proprio per quell’apparente beneficio che si prova nel metterla in atto, ma se il beneficio all’inizio è maggiore della perdita, alla lunga diventa un vero sacrificio, fino a chiudersi in una prigione di tentate soluzioni, che andranno a restringere sempre più il proprio spazio vitale.

Come sbloccare il blocco?

Per lo sblocco della performance attraverso dei mirati compiti e delle strategie costruite ad hoc è possibile sbloccare il problema e riportare la persona a diventare un oratore migliore, facendo diventare la propria debolezza in punto di forza, come ci insegnano i migliori oratori, da Papa Francesco a Obama.

Ma soprattutto è possibile farlo in tempi brevi.

Se vuoi saperne di più, contattami.